LA DISILLUSIONE DEL CODICE: QUANDO IL SOGNO INCONTRA LA REALTA'
Credo che tutto dipenda dal fatto che sono nato in un contesto in cui la tecnologia, i computer ed i cellulari erano dominanti: facevano parte del paesaggio quotidiano, non più oggetti misteriosi ma strumenti di creazione infinita. In quegli anni, programmare sembrava davvero una forma di magia moderna, dove bastava conoscere le giuste incantesimi - i linguaggi di programmazione - per materializzare qualsiasi fantasia digitale.
Tuttavia, con il passare degli anni, quel sogno ha lasciato spazio alla realtà, spesso più prosaica e disincantata: fare lo sviluppatore, specie in contesti consulenziali, significa lavorare su progetti obsoleti o il cui dominio non rientra nelle proprie passioni o semplicemente nella sfera dell'interesse. Ti ritrovi a mantenere sistemi legacy scritti da chissà chi, anni prima, con tecnologie che non avresti mai scelto, per risolvere problemi che non ti stimolano minimamente.
A ciò si aggiunge che la tecnologia e specialmente quella dello sviluppo software viaggiano ad una velocità assurda: si ha poco tempo per comprendere a pieno i vantaggi o gli svantaggi di un framework o di un linguaggio che subito si passa a quello successivo, magari più performante o semplicemente più alla moda. È una corsa continua dove l'approfondimento viene sacrificato sull'altare dell'aggiornamento costante, creando una sensazione perpetua di inadeguatezza e di rincorsa.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso, o comunque lo farà nel futuro, è sicuramente l'avvento dell'intelligenza artificiale e il relativo filone di applicazione al coding: strumenti come GitHub Copilot, ChatGPT e simili stanno rivoluzionando il modo stesso di scrivere codice. Mentre prima potevi sbattere la testa due ore per trovare una soluzione - e in quelle due ore crescevi, imparavi, sviluppavi la tua capacità di problem solving - ora c'è chi lo fa per te, in pochi secondi.
Certo, dal punto di vista di manager e gestori aziendali questo implica una riduzione dei tempi di delivery e realizzazione di progetti, maggiore efficienza e costi ridotti. Ma qual è l'impatto sul benessere delle persone? Che fine fa la soddisfazione intellettuale del risolvere un problema complesso? Come si evolve la nostra professionalità quando gran parte del processo creativo viene delegato a una macchina?
Chi è navigato come me (modo gentile per non dirmi che sono vecchio), magari è in grado di distinguere quando l'AI sta generando codice di qualità e quando invece sta producendo soluzioni subottimali o addirittura pericolose. Ha sviluppato nel tempo un'intuizione, un senso critico che permette di valutare e correggere.
Ma spesso i più giovani, al di là della realizzazione dei task, hanno difficoltà a capire il valore di ciò che si fa: perché quella soluzione è migliore di un'altra, quali sono le implicazioni a lungo termine di certe scelte architetturali, come si bilanciano performance, maintainability e scalabilità. Il rischio è quello di crescere una generazione di sviluppatori che sanno usare gli strumenti ma non comprendono i principi fondamentali che li governano.
Non voglio sembrare un nostalgico del "si stava meglio quando si stava peggio", ma credo che questo momento storico ci stia ponendo davanti a domande fondamentali sul significato stesso del nostro lavoro e su come vogliamo che evolva la nostra professione. Forse è il momento di ripensare non solo agli strumenti che usiamo, ma anche al perché e al come li usiamo.
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